Una cicala insistentemente friniva
di quell’ estate che lentamente finiva.
Da lontano tutta quella umanità,
in una straripante città,
si accalcava
e in mille rumori affogava.
Volgendo per un attimo lo sguardo all’insù
mi accorsi nella notte di un cielo terso tra il nero e il blu
che qualcuno, come me, verso le stelle guardava.
Solitaria e sollevata a mezz’aria una figura femminile seguiva involontaria
la mia stessa direzione immaginaria.
Il viso era a metà illuminato e di profilo si notava uno sguardo trasognato.
Affacciata da un parapetto, guardandola, ebbi un sobbalzo netto.
In silenzio lassù guardava.
Osservava,
rimirando al di là di ogni confine come a perdersi in pensieri senza fine.
Quelle guance così candide e quelle labbra così vermiglie con quelle poche movenze languide era rapita da chissà quali meraviglie.
Chissà a cosa pensava,
mi chiedevo
e mentre lei così lontano guardava poco distante mi sedevo
perché di accorgersi di me non volevo.
Il mio interesse verso lei voltava
e su di un pensier costante riflettevo.
Chiamarla avrei voluto, certamente in modo avveduto,
per dirle di quel manto luminoso che la notte la vestiva
e di che bellezza delicata il suo corpo ricopriva.
Di quella luce che la scolpiva mentre lentamente la mia anima rapiva.
Ludovico Fremont